IL FISIOTERAPISTA, UNA FIGURA POLIEDRICA: DALL’OSPEDALE AL MONDO DELLO SPORT

Vorrei partire da una domanda che molto spesso mi sento fare: “Cosa serve per lavorare in ambito sportivo ad alto livello?” Per rispondere a questa domanda sarebbe doveroso raccontare cosa significa, in senso ontologico, lavorare in ambito sportivo e quali differenze/punti d’incontro ci sono con i contesti lavorativi a cui la maggior parte dei colleghi è abituata, come una clinica riabilitativa, un ospedale o il proprio ambulatorio. Non voglio fare una banale disamina delle tecniche, delle terapie o delle procedure che si applicano in questo e quell’altro contesto ma voglio porre l’accento su un aspetto più ampio come quello socio-comportamentale e procedurale. Vorrei ricordare a tal proposito che la mia carriera, a parte una breve parentesi in un paio di centri riabilitativi convenzionati, si è sviluppata per una parte significativa di tempo proprio presso una struttura ospedaliera.

Di questa parentesi, posso sicuramente ricordare il ruolo ben definito, i confini professionali ben marcati all’interno dell’equipe lavorativa, il clinical decision making supportato e a supporto dell’EBM. In poche parole, tutto quello che un laureando in Fisioterapia trova sui manuali di studio lo trova applicato ed amplificato in un’unità operativa ospedaliera. Devo ringraziare i quasi dieci anni di lavoro in questo contesto poiché, tra tutto, ho potuto affinare le abilità del ragionamento clinico e, soprattutto, la capacità di relazione con il paziente.
La mia vita nel mondo del calcio è iniziata, per fortuna, dal basso, molto basso, dai campetti di provincia del settore giovanile di una società di Serie C, un mondo, un contesto completamente diverso da quello vissuto fino ad un attimo prima.

Una fortuna perché lavorare nel mondo del calcio, ma in generale nel mondo dello sport, non te lo insegna nessuno e stare con i giovani in un contesto già performante ma notevolmente “protetto dalla categoria” mi ha permesso di acquisire le hard skills necessarie per sopravviverci in modo non troppo traumatico! Un assioma che ogni fisioterapista che lavora nel mondo del calcio deve tenere bene in mente è che una società di calcio non è una clinica riabilitativa e che quindi in una società di calcio si fa calcio. Può sembrare un’ovvietà degna del signore di Lapalisse, ma questa affermazione sottende un concetto molto sottile: è vero che l’operato del fisioterapista nel contesto di equipe di una squadra di calcio mira alla restitutio ad integrum e/o al benessere dell’altleta, ma questo viene fatto  anche   e   soprattutto in funzione delle esigenze dell’allenatore e della società. In parole povere, le scelte terapeutiche, la stesura del progetto riabilitativo e del relativo programma, la valutazione del rischio non può esulare dagli impegni stagionali che un club deve affrontare. Ecco la prima, enorme differenza di approccio che c’è rispetto ad una clinica riabilitativa o un centro ospedaliero. Ti trovi in una infermeria di una squadra di calcio e ti scontri con bendaggi funzionali, terapie fisiche che nel SSN non vengono neanche menzionate, microcicli di allenamento, attivazioni pre-gara, medicazioni di ferite etc… argomenti che nel mondo sportivo sono all’ordine del giorno e che invece, complice anche un programma universitario altamente deficitario in questo ambito, un neolaureato in fisioterapia non sa neanche dove andare a leggere.

Questa è la seconda grande differenza: nel mondo dello sport bisogna essere altamente pratici, nella sua accezione positiva, bada bene non praticoni, ma rapidi ed efficaci nel trovare una soluzione al problema all’insegna dell’EBP. Nel mondo dello sport, quando si sale di categoria, soprattutto nel mondo del calcio d’élite le preferenze del paziente-atleta, diventano sempre più preponderanti nel processo decisionale che porta alla risoluzione del problema; ecco la terza grande differenza rispetto alla vita lavorativa ospedaliera. Per chi vuole intraprendere la carriera nel mondo dello sport, in particolare nel calcio, deve spogliarsi del camice dell’assolutista dell’EBM, inteso come l’applicazione pedissequa di tecniche e procedure supportate da rilevanza scientifica e indossare quello più compliante dell’EBP in cui la rilevanza scientifica è solo uno dei macro-aspetti da tenere in considerazione.

Questi anni trascorsi in alcuni degli spogliatoi più importanti della serie A mi hanno fatto capire quanto sia importante la nostra figura professionale non solo per quanto riguarda il mero aspetto di riabilitazione e cura ma anche per quanto riguarda l’aspetto della performance. Parlo dell’integrazione degli allenamenti con l’esercizio terapeutico, parlo del potenziamento dell’aspetto propriocettivo e sensoriale, parlo della correzione di pattern motori che possono inficiare la resa biomeccanica generale. Parlo anche di qualcosa di più impalpabile e potente come la possibilità di instaurare la giusta relazione con il paziente-atleta, non paternalistica, ma quella più difficile e indubbiamente più efficace, all’insegna dell’empowerment per aprire scenari motivazionali inaspettati.

Purtroppo, mi dispiace constatare anche che c’è tanto, tantissimo da fare. La figura del fisioterapista nel mondo del calcio è ancora intrisa del ricordo della figura mitologica del “vecchio massaggiatore” tuttofare, la persona che, agli albori di questo meraviglioso sport, si prendeva cura a 360 gradi dell’atleta e dello spogliatoio e degli aspetti calcistici ed extracalcistici dell’atleta. Per combattere questi vecchi fantasmi abbiamo bisogno ancora una volta di una identità. Spero in un futuro non troppo lontano con percorsi universitari adeguati e declinati anche per il mondo dello sport e non solo con un taglio predominante sulla gestione e cura delle patologie neurologiche e delle funzioni corticali superiori, spero nella creazioni di percorsi post graduate, seri ed adeguati in cui i docenti siano persone che abbiano lavorato veramente e seriamente in ambienti di élite e non professionisti che abbiano appreso per osmosi dal primo libro tre concetti di riabilitazione sportiva per poi vendersi come guru della materia. L’impresa è ardua, la posta in gioco è veramente importante, io ci credo.

Dott. Alessandro Gatta
Head of physiotherapy first team Juventus F.C.

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